SCULTURA COME TRAMA DELLA VITA
Mauro De Micheli
Mestiere, energia, immaginazione : sembrano queste le doti che danno carattere alle sue opere. Parlo di Cesare Ronchi, lo scultore che ora, in questa mostra riassume il suo impegno plastico dal ‘74 a oggi. Il problema è quello di capire in quale modo queste doti del suo talento riescano a vivere insieme, a fondersi e confluire nell’atto creativo. E non è...
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Mauro De Micheli
Mestiere, energia, immaginazione : sembrano queste le doti che danno carattere alle sue opere. Parlo di Cesare Ronchi, lo scultore che ora, in questa mostra riassume il suo impegno plastico dal ‘74 a oggi. Il problema è quello di capire in quale modo queste doti del suo talento riescano a vivere insieme, a fondersi e confluire nell’atto creativo. E non è facile, perché spesso il mestiere è povero d’immaginazione o l’immaginazione manca d’energia. D’altra parte i meccanismi che presiedono ai processi della rappresentazione figurativa il più delle volte sono misteriosi. Tuttavia, nella storia di Ronchi, a mio avviso, c’è qualche traccia che può suggerire senz’altro una possibile interpretazione dei suoi enigmi. È la traccia, che sin dall’inizio, vive latente lungo l’intero percorso della sua avventura d’artista.
All’origine d’ogni emozione c’è il rapporto col mondo, ci sono le circostanze in cui si compiono le nostre esperienze e si provano i nostri sentimenti. Ronchi, sin dal momento in cui, davanti al fenomeno della vita, ha avuto il primo batticuore estetico, pare che abbia compreso come intorno a lui aleggiasse un’aria d’inaccessibili segreti da penetrare e rivelare senza doverne tradire le ragioni occulte. L’inclinazione che, a suo riguardo, è stata definita surrealista, ha i suoi motivi. Ne rimane ancora un rimando evidente nella civetta che ci guarda con occhi umani mentre ostenta agli artigli un paio di guanti bianchi. È la scultura più vecchia, ch’egli però ha voluto presente quasi come una citazione della sua preistoria.
Guadando ogni altra opera non ci si deve dimenticare di questo suo strano uccello notturno. Dando forma a questa civetta egli pensava a come la nostra esistenza sia circondata da episodi in cui siamo coinvolti senza saperne le ragioni, in situazioni che restano arcane, inspiegabili al nostro buonsenso. Ronchi dunque, con la sua civetta, denunciava una simile circostanza in maniera del tutto esplicita. Si trattava quindi di un modo ancora del tutto “esteriore”, mentre invece ciò che ogni giorno ci accade intorno – le corrispondenze, i riferimenti, le connessioni – è qualcosa di più nascosto, di più oscuro e profondo. Accontentandosi di un riscontro così appariscente come la civetta con i guanti, finiva perciò per sfuggire ai problemi più intimi dei processi che pervadono ogni dettaglio della vita terrestre: vegetale, animale e umana.
Ma ecco, sono appunto questi i problemi che Ronchi ha voluto affrontare e che questa mostra rivela in ogni sua espressione. Allora la civetta può anche ritornare, questa volta però in un gioco dove ali e piume si confondono col groviglio di un cespuglio, in modo che, nell’invenzione mimetica, scompaia ogni facile dato dell’assurdo surrealista, ricondotto ormai alla“normalità” della natura.
Siamo così al centro della sua poetica, che consiste nell’accedere all’ermetica complessità del flusso vitale in cui siamo immersi, rivelandone eccitazioni e seduzioni, suggestioni e stimoli. Solo una particolare capacità intuitiva può permetterci di partecipare, pur senza spiegarcene i motivi, alla percezione di una tale nobilissima sostanza. Ci aiuta, come aiuta Ronchi, il saper trovare le metafore delle nostre intuizioni, le immagini la cui potenza è soprattutto allusiva, gremita di riferimenti indiretti, ma sempre comunque legate agli interrogativi che ci assalgono da ogni parte.
Che significano quelle foglie da cui, a sorpresa, sbuca fuori un coniglio come viva trasformazione del mondo vegetale in mondo animale? La risposta è sempre la stessa: significano il solo modo che Ronchi ha di convivere i prodigi che governano le ignote e
inquietanti forze della natura.
Da prima in modo incerto, ma poi con una coscienza sempre più attenta, egli è così riuscito a individuare i dispositivi che fanno scattare l’improvvisa rivelazione. Ed è appunto da questo momento che ogni sua metafora si è trasformata nelle immagini dei nostri desideri, delle nostre ansie e dei nostri sogni. Questa è un’altra: è tutta nel rapporto che lega indissolubilmente il Martino a cavallo col povero che a terra trema dal freddo.
Tra i due personaggi, il mantello che il santo è deciso a tagliare per donarne una parte al mendicante, rappresenta proprio quel flusso vitale che anima l’ispirazione di Ronchi: un’ispirazione d’amore e di fervore, che lo lega all’esistenza degli uomini, avendo coscienza di quelle forze misteriose che d’ogni parte ci avvolgono. Ecco dunque, in un finale esaltato della serie di queste immagini, il mantello che vola nell’aria, si gonfia, isola le due teste del santo e del povero, e stabilisce l’unità poetica della metafora.
È solo seguendo il filo di questo discorso che si può giungere a capire anche le immagini degli altri temi, certamente. Le immagini dei suoi Centauri innamorati: dal grande bronzo dell’88 ai minori che vi si collocano d’intorno. Pure qui cioè, come per San Martino, si deve tener conto dei motivi generali che alimentano il pathos d’ogni sua fantasia e invenzione. Qui però, forse più che in altre immagini, convergono elementi di maggiore allusione: il centauro che unisce in sé la potenza di uomo e animale, e la donna che dà il crisma della bellezza all’allegoria. Anche qui è comunque l’unità poetica che ravviva la composizione. Ogni figura che confluisce nell’altra assecondando la sostanza materica con morbida eleganza formale.
A questo punto si può anche capire il fascino che su di lui hanno esercitato i cavalli. In genere ogni energia che si sprigiona da un corpo animale ha sempre attirato la sua attenzione. Quanti cani, capre e gatti, oltre agli animali sin qui ricordati, egli ha modellato? È difficile dire. È certo però che nei confronti del cavallo ha dimostrato un interesse particolare, certamente perché il cavallo riassume davvero un nucleo possente di energie naturali nell’armonia di una nobilissima forma. Egli ha dato vita, proprio in virtù di un simile giudizio, a un folto numero di puledri e destrieri, di cavalli ch’egli ha lanciato un po’ dappertutto a scalpitare sui loro zoccoli. Tra questi ve ne sono anche alcuni di grande dimensione, come quello per la Villa Ghironda o il Pegaso per la Cefla.
Nell’esame che ho cercato di condurre sin qui sulle opere di Ronchi, ho trascurato però un temi ch’egli pure ha affrontato: il tema religioso, quello tradizionale del Cristo sulla croce. Non ero sicuro infatti dei modi a cui si era ispirato, se cioè soltanto per corrispondere agli intenti della commissione per la Via Crucis della Verna, oppure s’egli era riuscito a far rientrare il potere dell’immagine nella consuetudine del suo linguaggio. Ma è appunto questo il giudizio che alla fine m’è parso giusto esprimere senza riserve. Ronchi ha dato al suo Crocifisso, nonostante lo schema tradizionale, la stessa impronta che aveva già dato a San Martino o al mendicante che incontra sulla sua strada. Non ha insomma in nessun modo dovuto mutare né lo spirito né il carattere del suo linguaggio. Forse, nel Crocifisso della Verna, eseguito nell’85, pur nella libertà dell’invenzione, è rimasta l’eco di un’ascendenza classica, ma nulla di ciò si può certamente riconoscere nel Crocifisso dell’anno prima, dove ogni dato statistico respira di una totale e palpitante spontaneità d’ispirazione e d’esecuzione.
Si ritorna così alla fondamentale verità di Ronchi, che nel corso di tutti questi anni ha continuato sulla via delle sue percezioni sensoriali gremite tuttavia di rimandi a ciò che la realtà nasconde dietro lo schermo dell’oggettività. Affidandosi al gioco delle similitudini e delle analogie, è sempre di questa verità che egli ci parla. È dunque solo così che va inteso il suo linguaggio: come un’immagine aperta, anziché sigillata in se stessa, su quanto avvertiamo in noi e nella natura senza darcene l’ultima ragione. Ma a questo punto il discorso riprende dall’inizio, dalle prime parole di questo saggio. Solo che ormai si può invertire l’ordine delle sue qualità: non dire più mestiere, energia, immaginazione, bensì immaginazione, energia, mestiere.
Ma in fondo, tutto sommato, si può invertire tale ordine senza alcuna preoccupazione, perché, per un verso o per l’altro, tutto funziona, soprattutto per i disegni. Quando, nell’81, dice, con un autoritratto scherzoso, Vai a rubare il gallo, si tratta di rilievi in terracotta e legno; quando, nello stesso anno, si esercitava a descrivere Il gallo latino, con rilievi di carta e stecchini da denti, è la stessa funzione che gli attribuisce. Ma tante altre immagini lo sollecitano: per esempio, sempre nell’anno, con porcellana e carta arrotolata, descrive l’immagine intitolata Che figura! Poi, nell’85, con rilievi di carta colorata, descrive San Giorgio e il drago. E così di seguito: nel ’92 inventa, a tecnica mista, un coniglio con grandi orecchie; quindi nel ’93, il Progetto per una fontana; quindi a pastelli e tempera, nel ’94, Apollo e Dafne; quindi nel ’95, il Centauro innamorato, con una giovane ragazza rovesciata e rapita: si tratta di un disegno 120x80; ma il suo amore va in particolare ai cavalli e ai galli. Cavalli e galli li ha fatti da sempre. Un Cavallo, disegnato a matita, è del ’99; i galli sono vari: un Gallo bianco, di carta arrotolata, è del ’99; e altri galli a tempera li ha eseguiti dal lungo tutto il percorso.
In realtà egli non fa distinzione tra scultura e disegno: ogni cosa si articola con una invenzione prodigiosa, di cui è consapevole in ogni momento. Questo dunque è Cesare Ronchi, nelle sue qualità e nella sua perizia.
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I CAVALLI DI RONCHI
Giorgio Ruggeri
Lo scultore che oggi modella un cavallo corre lo stesso rischio di un architetto o designer che progetti una sedia. L’uno e l’altra, cioè il cavallo e la sedia, sono figure emblematiche che accompagnano l’uomo dai primordi. Chi disegnò il primo cavallo? Chi la prima sedia? Corre voce fra gli architetti che la progettazione di una sedia nuova comport...
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Giorgio Ruggeri
Lo scultore che oggi modella un cavallo corre lo stesso rischio di un architetto o designer che progetti una sedia. L’uno e l’altra, cioè il cavallo e la sedia, sono figure emblematiche che accompagnano l’uomo dai primordi. Chi disegnò il primo cavallo? Chi la prima sedia? Corre voce fra gli architetti che la progettazione di una sedia nuova comporti difficoltà pari, se non maggiori, di quelle che si affrontano per un palazzo. Non diversamente dallo scultore che si accinge oggi a inventare le forme nuove di un cavallo dopo millenni di proposte ricorrenti. Che cos’è un cavallo? A chi si pone la domanda la risposta non può essere che ambigua e variabile. Equus caballus registrerà puntualmente lo zoologo; il divino destriero aggiogato al carro solare di Fetonte, reciterà il poeta; il quadrupede su cui si lanciarono alla carica gli squadroni di Murat, rievocherà il generale con gli occhi lampeggianti; l’essere allegorico che si vede eroicamente atteggiato nei monumenti equestri; e perché no la bestia che tira il carro del contadino oppure l’ippogrifo ariosteo. Lo voglia o no prima di affrontare il tema e inventare i suoi cavalli Cesare Ronchi si sarà pur posto il problema: che cosa è e che cosa rappresenta per noi oggi il cavallo? Di certo una specie in estinzione, forse destinata a sopravvivere solo nei film, nei maneggi e nei campi di corse. A meno che l’artista non ritrovi nella propria memoria lo spazio ideale per restituire al grande compagno dell’uomo il respiro poetico che sempre gli è stato attribuito. Ed è proprio ciò che ha fatto Cesare Ronchi. L’arte è festa e gioco prima di essere qualunque altra cosa. L’arte è una funzione necessaria e naturale della vita collettiva e individuale, non meno necessaria e naturale del lavoro. Ronchi lo sa. Questo fecondo artista, dotato di una immaginazione strabiliante, ha saputo trarre dal suo bestiario esagitato le fattezze di cavallini estremamente eleganti, quasi classici, ma che nulla hanno a che fare con tutta la cavalleria del passato. È un’idea realizzata di getto, racchiusa nello scatto di volumi sorretti da esili gambe mobilissime. Veri gioielli la cui ridotta dimensione nulla sottrae alla statura, allo slancio e all’incanto di questi carducciani piccoli sauri destrieri della canzone. La serie si inquadra e si discosta dal panorama plastico di Cesare Ronchi. L’artista è uno sperimentatore nato. Ad una fantasia vivacissima, tenuta a bada da una sottile ironia, da un garbato eros e da un surrealismo felicemente controllato, si accompagna un arditissimo impiego di materiali diversi: dal bronzo al legno, dalla ceramica al plexiglass, vetro, terracotta, maiolica nera a terzo fuoco, grès patinato, fotoceramica…Che più? Da questo tumultuoso profilo balza, scalpita e caracolla lo squadrone dei cavallini bronzei di Ronchi, non indegni simboli – da Fidia in poi – di nobiltà, coraggio e poesia
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NATURALMENTE
Franco Bertoni
“Sono un osservatore, guardo e interpreto”. Con queste parole Cesare Ronchi suggella con efficacia una mostra composita (disegni e sculture) e dal titolo felice: “Naturalmente”. A questo punto basterebbe posare lo sguardo sulle opere per trovare le affabili e affabulatorie conferme di una naturalezza di pensiero, di una facilità esecutiva e di una em...
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Franco Bertoni
“Sono un osservatore, guardo e interpreto”. Con queste parole Cesare Ronchi suggella con efficacia una mostra composita (disegni e sculture) e dal titolo felice: “Naturalmente”. A questo punto basterebbe posare lo sguardo sulle opere per trovare le affabili e affabulatorie conferme di una naturalezza di pensiero, di una facilità esecutiva e di una empatica adesione dell’artista ai soggetti prescelti: cavalli, nudi femminili, fiori, foglie, alberi, civette, porcospini, spighe di grano. Soggetti inusuali nel panorama di un’arte contemporanea quasi completamente spinta da giganteschi, quasi oceanici, flussi mediatici e mercantili sulle derive della banalità dell’eccezionale. Un repertorio tematico e iconografico, quasi salvifico, che ha tenuto Ronchi al riparo da gratuite, effimere e apparenti effrazioni e solidamente avvinto, nonostante tante burrasche, all’albero maestro della grande tradizione figurativa italiana e ai suoi moderni timonieri. E la Romagna, prima o poi, dovrà farsi vanto di un primato novecentesco peculiare e caratterizzante seguendo il filo di un ricorso al vero, lungo un secolo, che annovera anche Cesare Ronchi. Di Angelo Biancini, di cui Ronchi ha ereditato la prestigiosa Cattedra di Plastica all’Istituto d’Arte di Faenza, non possiamo non ricordare, ai nostri fini, i lavori di Laveno, e tra questi certamente l”Orfeo” ma ancor di più gli animaletti che lo contornano in cui l’adesione al vero diventa stimolo per una perenne fonte emozionale. Ma i debiti di Ronchi, che sono, fortunatamente, quelli di ogni grande artista, sono ben compensati dai crediti. Sua è la cifra con la quale raccoglie le spighe di grano in covoni ricolmi di sapienza grafica, sue sono le contorsioni del tronco di un albero che, nelle sue mani, diviene esercizio di prove quasi astratte, sue sono le deformazioni cui porta i modelli di riferimento per esaltarne le caratteristiche fisiche e le implicazioni psicologiche. Si guardi l’accostamento del fiore della calla al sesso femminile o l’indulgenza che presta ai turgori di una natura in fiore per suggerire un più diffuso alito vitale. L’arte di Ronchi non è afflitta da cerebralismi, da onanismi, da mortificazioni della materia o da autoflagellazioni d’artista. È un’arte felice. Un’arte che invita a scoprire la meraviglia, o il mistero, nel quotidiano. E, ancora una volta, non entra nel mondo dell’arte chi non sa scoprire il meraviglioso in una zolla erbosa o nelle elitre del più piccolo insetto. Poi tocca alle mani, ripetutamente esposte da Ronchi nell’atto del disegnare, dare forma ai sogni che dalla osservazione possono maturare. Tutto con la difficile arte della semplicità. Un modo lontano da noi e dal nostro presente che uno scrittore giapponese del XVII secolo ha così riassunto: “Vivere solo il momento, concentrare tutta l’attenzione sul piacere che procurano la luna, la neve, i boccioli di ciliegio e le foglie d’acero; cantare canzoni, bere vino, dedicarsi solo al divertimento; tenere lontano da sé ogni genere di cose tristi, lasciarsi trasportare dalla corrente del fiume, come un recipiente che galleggia nell’acqua”. Osservare, capire e interpretare. Un ideale ben illustrato nella storia di un vecchio pittore, anch’egli giapponese, che, quando gli chiesero quanto tempo avesse impiegato per dipingere un bambù, rispose: “Cinquant’anni e cinque minuti; cinquant’anni per studiarlo, cinque minuti per dipingerlo”. Ronchi osserva con attenzione e interpreta con quella naturalezza che deriva dal felice scioglimento di duri esercizi. L’Oriente è lontano, nel tempo e nello spazio, nonostante le costanti intrusioni della globalizzazione, ma un suo nome deve pur essere atterrato anche sulle feconde zolle di Romagna se Giovanni Pascoli ha potuto scrivere, alludendo al famoso “Valentino vestito di nuovo” come l’uccello venuto dal mare, che tra il ciliegio salta, e non sa ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, ci sia qualche altra felicità”. È poco? Forse è tutto. Un grazie a Cesare Ronchi per la sua arte umile e nobile, come la semplicità. Naturalmente.
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LA VANITA'
Alfonso Gatto
Il potere di ammonizione, di accusa, in queste tavole di Ronchi, è nel valore del segno, nell’emergenza compositiva con cui l’immagine figurale viene astretta e intensificata prensilmente nello spazio che le dà abitacolo e penitenza – garitta, direi – nell’appartenersi tutta per aprirsi alla sua esibita proiezione.
"Vanità&qu...
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Alfonso Gatto
Il potere di ammonizione, di accusa, in queste tavole di Ronchi, è nel valore del segno, nell’emergenza compositiva con cui l’immagine figurale viene astretta e intensificata prensilmente nello spazio che le dà abitacolo e penitenza – garitta, direi – nell’appartenersi tutta per aprirsi alla sua esibita proiezione.
"Vanità": per Ronchi, la parola e il tema non hanno nulla di moralistico. Vanità è la condizione ineccepibile di un volto che al mostrarsi ha in sé, implacabile, l’analisi del proprio sensibile adattamento agli alvei e ai denti della fissità: una insistita attorta magrezza che pure s’amplia nella sua metafora monumentale. Fogliare metamorfico, mutevole ironia caduca, affaticato istrionismo fisico, sono in queste effigi liberate dalla convenzione pietosa e restituite agli emblemi degli ingranaggi articolari, verso la pompa affluorescente dei decori visuali. A Ronchi non sfugge il più sicuro valore di sintesi, di stretta finale: uno spasimo esibito a libidine sfuggente, una presa sempre vana e sempre di sé attratta e partecipe. Ed è forse questa la sconfitta – lo scheletro – la sede ultima in cui la vanità non ha più nome cristiano, e non è colpa, ma la prova stessa del vivere.
A parte la tavola del “Pictor optimum”, in cui la pingue alterigia di De Chirico è, qual è, consentita e autorizzata dal giubilante ostensore, incazzato col suo stesso cipiglio per quella faccia così-così (non ne ha altra, quale meriterebbe, a suo credere), in tutte le altre prove di Ronchi c’è, ultimativa, questa arrischiata avvenenza della fatica che costa il costruirsi un volto nel digrignarne la stessa smorfia modale: attualità, quanto effimera, dell’essere nel comportamento, secondo un gusto del “parere” che non è mai lo stesso.
La vanità è una vana ricerca della propria sospensione a un significato, a una dedica: amore quale infinita somiglianza dell’amore: il non-sapere che sorprende il vago, l’indefinito di un’offerta che chiede a se stessa il suo sapere nei denti, nello stuccato sigillo delle labbra: la sete come filtro d’acqua ghiaccia per gli occhi chiusi che, dentro, corrono in brividi per un gorgheggio che mai verrà. Vanità è la distanza ravvicinata che cerchiamo di ottenere sugli altri, ma con le loro stesse misure, vincendole non si sa bene in nome di quale prestigiosa convinzione. Tutto questo è nelle tavole del Ronchi opera e valore del segno, dell’emergenza compositiva che ne accoglie le ultime decisioni, come ho già detto.
Guardate la tavola in rosa rosso grigio e verde che si intitola, come altre, “Sulla vanità” (è un discorso segnico continuo che a Ronchi interessa fare), In quale morbido astringente e ultimativo costrutto, tra infiorata velata e pavoneggiata, la donna si tende dalle piaghe in cui è incappata, verso la mano tesa. Il segno e l’impianto di asciutto manierismo ligneo possono ricordare l’Attardi scultore: così come in “Un fiore per la civetta” lo ricorda l’occhiuto e andante panneggio della veste. Ma Ronchi giunge al chiarimento di una nuova pietà polemica e smarrita. Sul volto di queste donne, viventi nell’effimero presagio del parere, è una occasione sempre mancata, un gesto vano, da gogna, da decubito estremo, una insaziabile e torturata sensitività che s’avvale del suo mettersi in ghingheri, in allegre gramaglie, quasi a vestirsi essiccata delle proprie spoglie. La lontananza onirica è ravvicinata bruscamente in un particolare che di colpo si fa totale e reale. Ne vorrebbero fuggire col raptus leggero e fogliato del panneggio, già avviato a squagliarsi nella sua ridondanza d’onda morta e assorbita dal proprio quieto risucchio, come nella bellissima tavola “Figura”.
Queste tavole disegnate di Ronchi sono forse studio e preludio per una giustificazione plastica totale del volto femminile nella sua apparizione. La donna che deve mostrarlo, ne partecipa con la volontà impossibile di volerlo uguale all’immagine cui crede di giungere, quale un desiderio che per ansia si fa desiderabile. La donna varia nella somiglianza la propria dannata identità, per attimi sfuggente ai suoi richiami espressivi , e di nuovo per attimi confermata nel suo relitto esausto. Sono disegni che a me piacciono molto e mi danno conto di un artista del quale so poco o nulla, oltre queste prove che mi hanno impegnato a scrivere e a capire di lui con una convinzione che, al principio, non credevo così sollecita.
Questi disegni di Ronchi forse ci decidono a pensare come l’inesprimibile, questo gesto interiore da cogliere e da donare, quale ragione dell’essere e del trovarsi in una figura e in un volto, nell’amor proprio che di sé gli altri innamora sia la nostra vanità più cocente e fatale: il richiamo della ferma avvenenza, statua, architettura, per ogni labile seme di vita che nel fiore perpetui la prova caduca e eterna dell’uomo.
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LA LUCE, L’ARIA, LA MATERIA E UNA GIOIOSA IRONIA
Alberico Sala
Il cavallo è da sempre emblema dell’energia, dell’intelligente controllo delle forze, di slancio armonioso che conquista la distanza, lo spazio, la luce.
In età classica la figura mitica del centauro fonde i caratteri umani e quelli animaleschi in una figura fascinosa, inquietante, intelligente e selvaggia, sensualissima e aggressiva, che ha in Chirone, fi...
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Alberico Sala
Il cavallo è da sempre emblema dell’energia, dell’intelligente controllo delle forze, di slancio armonioso che conquista la distanza, lo spazio, la luce.
In età classica la figura mitica del centauro fonde i caratteri umani e quelli animaleschi in una figura fascinosa, inquietante, intelligente e selvaggia, sensualissima e aggressiva, che ha in Chirone, figlio di Saturno e di Fillira, l’interprete più compiuto e più suggestivo: sapiente, saggio, energico, s’impose come istruttore di dei e d’eroi nella sua doppia natura che gli consentiva il controllo e la più ampia modulazione dell’istinto, della conoscenza sensoriale e dell’elaborazione intellettuale, del freno della ragione: oltre a molti argonauti a lui furono affidati per un’educazione guerriera e civile Bacco, Ercole, Giasone, Esculapio, Teseo, Castore e Polluce, Enea, Nestore, Ippolito, Ulisse, Diomede, Cefalo, Achille. La spiccata sensualità e la forma, la prestanza fisica ed erotica, hanno fatto del centauro un tema privilegiato sia della pittura murale e vascolare che della scultura. Con grande sensibilità di ricupero dell’immaginario classico, cioè di quei sedimenti della nostra cultura che costantemente nutrono il presente, ma anche con adeguata ironia e intenzione di capire le tensioni del nostro quotidiano verso l’illuminazione di un possibile futuro, Cesare Ronchi rifà propria questa eccezionale figura plastica e la esalta in stupefacenti danze erotiche che disegnano, attivano, conquistano lo spazio con una misura e un’eleganza raffinate, decantante, altamente suggestive di fraseggi e di ritmi musicali.
I numerosi disegni a segno sottilissimo, che assumono valore di «studi» puri in quanto davvero esercizi di misura dello e nello spazio, hanno rara giocosità e una ariosità, che sono, insieme, mestiere e slancio poetico, compiuta libertà di «costruzione», di rassodamento e rarefazione dell’energia, come araldi di movimenti psichici, di emozioni, di innevate seduzioni gestuali. Cavalli, cavalieri, centauri, nel percorso ritmico del segno quanto nella scansione plastica della materia, sono esaltazione di gesti che si possono ricondurre a un’emozione forte di gioiosità esistenziale, diventare tramiti espressivi di un positivo ritmo interiore, di un ritmo dell’anima sorprendentemente lieve e mobilissimo.
È indubbiamente, un momento di creatività felice per Cesare Ronchi, la cui straordinaria capacità di racconto trova, nell’ormai ricchissima «galleria» di centauri e di puledri scalpitanti, una sintesi «costruttiva» di infinite possibilità di variazioni espressive dell’energia di vita, in virtù del gioco di luce che tocca, carezza, o si rompe e vibra sulla superficie. Questi suoi disegni e queste sue sculture recenti sono davvero fatte d’aria e di luce, di materia resa leggera da un gesto che è canto alla vita, conquista dello spazio, mobilità continua, trascorrere dell’emozione fino agli equilibri più azzardati e instabili per proporre una nuova e più coraggiosa misura del vivere, un sommovimento di pensiero e di disponibilità operative che fioriscano speranza.
La grande maestria compositiva di autentico manipolatore di terre, la sapienza di lettura e di continuazione delle lezioni dell’arte del passato (con straordinarie e pertinenti citazioni dall’arte ellenica, e poi gotica, risalendo alla mobilissima espressività segnica e plastica del Settecento e, naturalmente, alla narratività di Martini, Marino e Biancini, generoso Maestro di tanti Maestri romagnoli), si sono come rassodate e poi esplose in gesto e sigla personali, in racconti ritmici in cui ogni movimento è coinvolto nell’esaltare, a tutto tondo, l’efficacia dell’occupazione dello spazio come attivazione dell’immaginario, del pensiero poetico, dell’emozione simpatetica.
Il bronzo, con le sapienti patine, dona a questi virtuosismi aerei e costruttivi (i Centauri innamorati, i Don Chisciotte, i San Martino) una plasticità ricchissima di riflessi e di inflessioni luministiche, di vibrazioni per innervature brevi e secche che evidenziano il movimento, sottolineano il punto dove precipita, il gesto espressivo e si focalizza il momento comunicativo e di compartecipazione al gioco, all’ironia, all’emozione.
Alberico Sala
La memoria risale alle stagioni marine degli anni Cinquanta e Sessanta, sulla riviera adriatica, sotto Ravenna, prima che si eccitasse nel turismo dei più tumultuosi centri balneari. La poesia si incontrava a Cervia, sotto gli alberi della pineta; autori, critici ed amici, artisti, si ritrovavano e discutevano. Sarebbe troppo lungo rammentarli tutti. Dovrei incominciare dai giurati (alcuni, purtroppo, da Giuseppe Ravegnani a Giovanni Titta Rosa, sono scomparsi), che mi diedero fiducia, assegnandomi il premio Cervia di Poesia nel 1960. Rivedo in quell’aria verdazzurra le braccia di Alfonso Gatto, un altro amico che se n’è andato, mulinare; risento la sua voce, irata e indifesa.
Trovo alcune paginette di Gatto nell’antologia critica dello scultore Cesare Ronchi. Come spesso accade ai poeti che s’interessano d’arte (senza le loro illuminazioni, da Baudelaire ad Apollinaire, fino agli esempi dei nostri giorni, sufficit Giovanni Testori, alcuni movimenti, molte aperture non ci sarebbero state), Gatto aveva visto giusto nel lavoro dell’artista imolese, che s’è fatto nel nido generoso di Faenza, quando presagiva che le tavole disegnate da Ronchi gli apparivano: “studio e preludio per una giustificazione plastica totale…”.
Sono trascorsi una decina d’anni e Cesare Ronchi, nelle opere realizzate dal 1982 al 1986, afferma una possessione matura dei propri mezzi, proponendo una approfondimento della propria ricerca estetica ed etica, Ronchi impegna sempre più le risorse del suo linguaggio, che ha filtrato la lezione espressionista, e assunto movimenti dalle esperienze degli Anni Dieci, quasi a temperare, con la giunta di tensioni simbolistiche, l’asprezza, la violenza della denuncia. Nell’opposizione fra vita e morte, che ha denominato a lungo il lavoro di Ronchi, s’è inserito il valore dell’amore, l’importanza del rapporto fra le creature, come tentativo di sconfitta della solitudine, ch’è la condizione naturale dei viventi.
Ma la formulazione di “Venere”, come è risolta nella scultura del 1983, suggerisce motivi di meditazione, da quella sua struttura composita, per virtù anche dei materiali impiegati, il legno e la porcellana, un elemento antico e semplice, un impasto elegante. Il petto della dea si apre come un armadietto in cui ciascuno può raccogliere le ossessioni (psicanalitiche), i vizi, le debolezze, i desideri, i gaudi, che sogna o che si infabula.
La convivenza, in queste ultime opere di Ronchi, di materiali diversi, il legno, la porcellana, la maiolica, la ceramica, instaura una somma assai ricca di suggestioni, e mi pare che apra all’artista tempi di particolare libertà e fascino.
Il gruppo dei piccoli bronzetti testimonia la grande maturità del suo autore, giunto al superamento d’ogni virtuosismo, l’eccellenza artigianale combinata con la verità dell’immagine, e l’essenza significante.
E sempre vigili sono l’ironia, il disincanto, filtrati attraverso le esperienze esistenziali, come conferma il “Centauro innamorato” del 1986, superba modulazione plastica, il bel volto desiato fra gli zoccoli e, sulla coda irta, un nodo, come per rammentarsi la sua duplice natura, il suo doppio dramma.
Non basta, per consolarlo, l’assunzione fra le stelle.
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IL SANTO, L’UOMO, IL CAVALLO
Dino Pasquali
A proposito di artisti più o meno celebri che hanno consegnato alla storia dell’arte una loro immagine poetica del Santo nato oltre milleseicentocinquanta anni fa in Pannonia, a Sabaria, ho in mente pur con qualche nebbia da fugare, le rappresentazioni vuoi di pittori nostrani come Bernardino Butinone (forse ne riparleremo) e Simone Martini, vuoi stranieri come Rubens ...
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Dino Pasquali
A proposito di artisti più o meno celebri che hanno consegnato alla storia dell’arte una loro immagine poetica del Santo nato oltre milleseicentocinquanta anni fa in Pannonia, a Sabaria, ho in mente pur con qualche nebbia da fugare, le rappresentazioni vuoi di pittori nostrani come Bernardino Butinone (forse ne riparleremo) e Simone Martini, vuoi stranieri come Rubens e Van Dyck; nomi illustri ed illustrissimi che adduco per civetteria intellettuale, non per trarne schemi ai quali riferire il Martino concepito dallo scultore Cesare Ronchi, le cui iterate versioni del soggetto peccano, per così scrivere, in “laicità”, ovvero esulano da un programma di presupposti religiosi e sacrali, senza per questo negarli. Mi sia ora accordata una digressione. Per dire che cercando – fuor d’agiografia e dal voler scovare nobili antefatti iconografici cui “imparentare” l’opera ronchiana – di documentarmi sul Cavaliere che il proprio mantello divise (tagliandolo letteralmente in due, com’è noto) con un misero viandante, ho reperito in una vecchia enciclopedia un perduto idiotismo, una accattivante eppur desueta forma linguistica oramai priva di significato, per noi che abbiamo accantonato la tradizionale civiltà contadina. L’espressione – legata a questo, che in passato col giorno 11 novembre, festa del Santo, scadeva l’annata agricola e ne conseguivano cambi di locazione e d’alloggio, perciò sgomberi – è la seguente: far San Martino, e vale sloggiare, sgomberare. In tal senso pare l’usasse con arguzia Vittorio Emanuele II, prima di una risorgimentale battaglia (1859) contro gli Austriaci: “O pigliamo San Martino, o facciamo San Martino noialtri”… Al monarca andò bene. Spero dunque che così accada pure al pubblico ed a me nel tentativo di “pigliare”, capire i lavori di Ronchi. La qual cosa rimarrà più facile se non porremo la vicenda sul piano devozionale, piano peraltro non investito dall’autore, probabilmente perché sarebbe stato difficile per lui, da lungo dedito ad una poetica fantasiosa, ludico-ironica (con notevoli punte erotiche), rientrare in regole prescriventi immagini “né di faccia lasciva, né ornate lascivamente; ma di sembiante pudico, e divoto, e composte in guisa, che mirandole gli Spettatori ne ricevano affetto di purità e divotione”. Il che in altre parole, quelle del Gilio, significherebbe anche realizzare lodevoli opere “per il cui mezzo il dotto e l’ignorante, et ogni volta che le vede, è eccitato a la devozione, invitato a l’imitazione e provocato a la compunzione.” (Rivelo fa parentesi che la fonte di queste due citazioni, e delle prossime riguardanti il cavallo, è il Dizionario della critica d’arte di Grassi e Pepe.) San Martino si fece cristiano dopo aver militato da giovane nella guardia imperiale. Fu a Milano ed in Gallia, dove nel 371 venne consacrato vescovo di Tours. Fondatore dell’abbazia di Marmontier, diffuse il monachesimo e contribuì molto alla penetrazione del cristianesimo nelle campagne ancora pagane. Già prima dell’apostolato e dell’attività missionaria, incontrò, lui cavaliere, un mendico tremante di freddo presso le porte di Amiens, ed allora, presa la spada, gli donò metà della sua cappa. L’episodio, celebrato da tantissime interpretazioni, artistiche e no, ha fatto di Martino uno dei santi più popolari. Non ci vuole molta cognizione di causa per dubitare che i sopra riportati e striminziti cenni “esistenziali”, né avvisi vasti ed apologetici, abbiano potuto guidare il modus operandi di Cesare, plasmatore – di rara perizia, nell’assoluta padronanza dell’ampia gamma espressiva che la scultura offre quanto a materie tradizionali e no – abituato a non derogare (pagando talvolta il fio dell’incomprensione) da una propria immaginazione fantastica, dagl’imperativi d’una personale verve creativa. E se in Martino egli ha visto principalmente l’umiltà e la generosità di un individuo alla pari coi suoi simili, ecco pure, sulla scia di moti interiori astraenti dagli aspetti canonici della verosimiglianza, che nei riguardi del destriero non s’è lasciato sedurre dalle pretese di fornire un esempio di cavallinità (quasi a sottolineare un ideale platonico). Perciò, configurando un suo cavallo (gl’increduli l’osservino a dovere), non ha sostato su modelli classici o rinascimentali, non s’è calato nella lettura del De equo animante dell’Alberti. Neppure ha seguito i consigli del trattato di Fleitmann The horse in Art, o d’altri scritti più o meno concordanti sul possesso di pazienza e abilità per comprendere “le misure del cavallo ben fatto e svelto, con le sue minute e particolari proporzioni”. D’altronde al titolo di “animalista” (col beneficio dell’invenzione talora tradotta in “pathos” formali “baroccheggianti”) il Romagnolo ha pieno diritto, come ci conferma il quaderno pubblicato, con testo di Alberico Sala, dalla Galleria Ferrari di Treviglio. E segnatamente con la dizione I cavalli di Ronchi è apparsa, firmata da Giorgio Ruggeri, un’ulteriore agile monografia, stavolta a cura dell’editore veronese Ghelfi. Derivato da progenie selvatica (Equus prezwalskii) ancor oggi vivente in una zona situata fra la Cina e la Siberia, il cavallo attira da sempre Cesare, appassionato concepitore di forme equine sin da ragazzo e “fanatico” spettatore di film western, dove l’affascinante essere non vale certo da deuteragonista di poco conto, quantunque non sia con esso, avvertito di sovente quale simbolo di libertà, che il figuratore raggiunge l’apice d’una sua vocazione in qualche modo visionaria. E nella versione bronzea più recente, in cui il donatore Martino e l’anonimo gratificato appaiono legati da un mosso panneggio che getta fra loro un “ponte”, una sorta di fluttuante passerella, il “ginnetto”, piccola la testa e pronunciati i glutei, abbassa il collo e si volge incuriosito a guardare sotto quel ponte. Si dà il caso che questo libro sia stato ideato in Treviglio e che lì figuri il capolavoro del Butinone. Tuttavia credo di poter escludere che il Martino del pittore di scuola preleonardesca abbia influenzato le visioni “arbitrarie” dello scultore. Insomma, e il San Martino e il cavallo e il mendicante sono il San Martino, il cavallo, il mendicante di Ronchi, e di nessun altro. Il trio va al di là d’un preesistente repertorio iconografico e delle realtà antropomorfe e zoomorfe che avranno ispirato l’Imolese. Lunga chiacchierata, la mia. Al paziente lettore che mi ha seguito avrei potuto risparmiarla (cara, vecchia affettazione di modestia e d’immodestia) dicendogli: “Ecco di Cesare Ronchi un San Martino liberamente interpretato”.
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